giovedì 29 settembre 2016

FIGLI DELL'URAGANO - INTERVISTA A LAV DIAZ!


IL MONDO DI LAV DIAZ
di Mina Jane e Alex M.Salgado

Per il grande pubblico è stata la rivelazione dell’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: Lav Diaz, il regista senza limiti di tempo. Dal 2006 a oggi le opere di questo versatile realizzatore filippino hanno conquistato i favori della critica e una serie di soddisfacenti successi nei più importanti festival del cinema, ma il suo record assoluto sta soprattutto nella lunghezza dei suoi film, che possono arrivare senza problemi anche fino a dodici di ore di proiezione.

Ieri sera all'APOLLO 11 di Roma, Cristina Piccino (critica del MANIFESTO) e Donatello Fumarola (distributore cinematografico) hanno presentato il film "FIGLI DELL'URAGANO - STORM CHILDREN: BOOK ONE" e per l'occasione, Lav Diaz, in collegamento video, ha parlato con grande libertà di sé come regista e della sua personale visione del cinema.
Il cinema è la sola cosa per la quale vivo. 
Senza il cinema non saprei fare nulla. È la più moderna delle arti, tecnicamente la più potente e la più pericolosa. Comporta molte responsabilità, prima fra tutte la responsabilità di usarlo principalmente come strumento estetico. 
Nel cinema si gioca la battaglia tra estetica e intrattenimento, cultura contro commercio. Nell’usare questo mezzo sento tutta la responsabilità soprattutto nei confronti del mio paese, verso la mia cultura, verso la mia gente, la loro lotta come popolo e la mia personale lotta come artista”.

Quale obiettivo persegui nel fare cinema? Quale risposta cerchi di offrire?

“In questo mestiere ci si interroga di continuo, ogni giorno, perché il cinema riguarda l’esistenza stessa, ne è una parte come un braccio o un occhio. Non sempre si trovano le risposte”.

Il suo stile inconfondibile è caratterizzato da lunghissimi piani-sequenza e campi lunghi come mai?

“Quando si realizza un film si produce una specie di realtà culturale alternativa. La chiamo così perché si tratta di una cultura che viene fuori dalle riprese stesse del film, fa parte del nostro metodo cinematografico, è qualcosa di dinamico. Dopo aver fatto il film, ognuno torna a casa propria, alla propria vita, e ci si lascia questa realtà culturale alle spalle. Questa metodologia di lavoro mi consente di dare agli attori più libertà. Una volta che dico “azione!” gli interpreti sono liberi di fare quel che vogliono, entro i limiti di ciò che intendo ottenere in una determinata scena. Voglio che gli attori facciano esperienza del loro personaggio per trovare la loro espressività. Quando dico “stop” loro si arrestano. Così il processo di alienazione di un personaggio è più realistico. Al contrario trovo che operare molti tagli, fare molte inquadrature nella stessa scena, sia un metodo molto manipolatorio. Credo che nel mio modo di lavorare ci sia più verità. Spesso prendo le distanze da una scena perché voglio vedere la vita così com’è, non voglio manipolarla, voglio vederla esattamente come la vedono le persone. Voglio che il cinema possa essere come un’esperienza di vita, cerco la verità della vita… se pure c’è una verità!”.

Cosa ti spinge a fare film così lunghi?

 “E’ una forma che ho sviluppato con il tempo. I miei film sono diventati sempre più come organismi. Il limite delle due ore per la lunghezza di un film è una pura convenzione commerciale. Io cerco di realizzare un cinema libero e la lunghezza non è un fatto premeditato. Non so mai quale potrà essere la lunghezza di un film quando inizio a girare. Se giro una scena e viene di venti minuti, la lascio di venti minuti, non voglio tagliarla o costringerla a una durata più breve”.

Quando monti un film ti capita di chiederti per chi lo stai facendo?

“Io faccio cinema solo per il cinema! Non per qualcun altro. Lo faccio per il cinema in quanto arte. Non penso nemmeno al guadagno. Non voglio compiacere nessuno.  Non desidero piacere nemmeno a me stesso. Tutto quello che voglio è lottare per fare cinema, il cosiddetto “cinema puro”. È qualcosa a cui non si arriva mai, ma ci provo. Una volta che il film è realizzato non mi interessa nemmeno che tipo di reazione possa suscitare nel pubblico. Fare cinema per me significa condividere e non posso tagliare un film e renderlo di due ore solo perché piaccia”.

Come è nata la sua passione per il cinema?

“Sono cresciuto guardando film. Mio padre è un cine-dipendente, è stato lui la mia scuola di cinema. Anche se era pieno di zanzare non gli importava, stava lì e guardava i film e mia madre diventava pazza. Da Charlie Chaplin ai film d’azione e sul Kung-fu, sono cresciuto guardando un sacco di film grazie a lui.  Vivevamo in mezzo alla foresta nell’isola di Mindanao, ma ogni fine settimana ci portava nel paese vicino a vedere tutto quello che c’era in quattro cinema diversi, arrivavamo a vedere anche otto film. Forse i miei film sono lunghi per questo! Mio padre è pazzo, questa è stata la mia scuola e questo è il mio sangue”.  
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Ringraziamo ZOMIA ( www.zomia.it) per la gentile concessione alla pubblicazione dell'intervista.
Il film rimarrà in programmazione a Roma all'APOLLO 11 di Roma fino a domenica 2 ottobre. Per il calendario delle programmazioni: pagina Facebook

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