venerdì 23 settembre 2016

“Con Il bambino di Vetro ho imparato un’importante lezione”: il regista Federico Cruciani racconta




“Con Il bambino di Vetro ho imparato un’importante lezione”: il regista Federico Cruciani racconta

di Mina Jane


Proseguono all’Apollo 11 di Roma le proiezioni de Il bambino di Vetro, un film che accompagna lo spettatore nel mondo delicato di un bambino costretto ad affrontare una dolorosa verità. Prendendo spunto da un romanzo di Giacomo Cacciatore il regista Federico Cruciani ha realizzato una singolare rappresentazione di piccolo spaccato della Sicilia dei nostri giorni attraverso il punto di vista di un bambino. A noi ha raccontato questo suo lavoro.




Dopo le sue numerose e diverse esperienze teatrali questo è il suo primo lavoro dietro la macchina da presa, com'è stato il passaggio dal teatro al cinema?

 “Non ho avuto particolari difficoltà. Anche in teatro il regista deve avere le idee chiare e soprattutto saper guidare gli attori. In più, sul set, sono stato aiutato da grandi professionisti, a cominciare dal direttore della fotografia Duccio Cimatti. È importante secondo me avere piena consapevolezza della differenza tra i due linguaggi. Il cinema poi, rispetto al teatro, è un'industria molto più grande e costosa e questo arriva a incidere sui tempi artistici di realizzazione e sulla quasi impossibilità di tornare indietro sui passi compiuti. Questa è la vera lezione che ho imparato da questa esperienza: un regista, al cinema, deve cercare di sbagliare il meno possibile nel poco tempo che gli è dato a disposizione”.


Come mai ha scelto di dirigere un lavoro ispirato a un romanzo?

“Ho letto il romanzo di Giacomo Cacciatore molti anni fa. Cercavo il soggetto per fare un primo film e rimasi folgorato all'epoca dal modo originale in cui quel libro, una sua parte almeno, affrontava un tema abusato come quello della mafia. Quello che soprattutto mi colpì era il suo spostare l'attenzione dalla violenza propria di ogni famiglia criminale, alla violenza domestica, intima, di una qualsiasi famiglia. Nel film si tratta la storia di una famiglia palermitana socialmente disagiata, in cui i due temi sulla violenza arrivano al punto di mescolarsi e confondersi”. 
 

In effetti il tema della mafia negli ultimi anni sta prendendo sempre più piede nel cinema. Nel suo film però si percepisce che la mafia non è il vero obiettivo della narrazione e nemmeno il problema centrale della storia. Come mai ha optato per questa scelta?

Paolo Briguglia
“Non ho mai pensato di girare un film sulla mafia. Il romanzo, e quindi poi anche il film, sembra raccontare una storia di famiglie mafiose, ma in realtà narra la storia di una famiglia ordinaria che vive un forte disagio. Era questo il cortocircuito che più mi aveva colpito. C'era inoltre al centro della storia lo sguardo di Giovanni, un bambino di dieci anni, che permetteva una grande libertà creativa. La criminalità, nello sviluppo della storia, ha un ruolo importante, ma resta sullo sfondo. Si uccide, ma non si descrivono mai i meccanismi della malavita, si lasciano solo intuire. Il fuoco è su altro. Sul bambino prima di tutto e sul suo tentativo di decifrare gli avvenimenti che accadono intorno a lui, il suo spaesamento, la graduale messa a nudo della figura paterna e la sua solitudine. Il film ha il carattere del noir, ma è anche e soprattutto un racconto di formazione”.

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