lunedì 19 dicembre 2016

MILANO, VIA PADOVA. La musicalità della cattiveria e il lato comico del razzismo. Incontro all’Apollo 11 di Roma con Flavia Mastrella e Antonio Rezza.

di Mina Jane
Non è proprio un documentario e nemmeno un’inchiesta, il film di Antonio Rezza e Flavia Mastrella è più che altro la messa in scena di un paradosso, quello del razzismo. Milano, via Padova è la sceneggiatura semplice, ma spiazzante e incredibilmente umoristica, di un disagio scritta con la diretta collaborazione della gente comune, quella che si incontra per strada ogni giorno.


Come è nata l’idea di creare un’opera cinematografica che spiega il razzismo attraverso lo sguardo degli abitanti di una via di Milano?
Antonio Rezza: “Milano Via Padova è un lungometraggio che nasce per eccesso di zelo da un’indagine affidataci dalla Fondazione Gaetano Bertini sulla gente che vive la via. Già l’anno prima la Fondazione Bertini ci aveva incaricato di realizzare un documento sul disagio mentale. Questo film parla invece di razzismo e insofferenza e racconta, attraverso il canto, la convivenza forzata e la cultura di chi è straniero”.
Flavia Mastrella: “Ci hanno chiesto di fare questa esplorazione per entrare in contatto con la popolazione con la gente della strada e abbiamo accettato la sfida. Il nostro interesse era puramente antropologico, mostriamo le cose, non diamo una soluzione, anche perché sono problemi difficili”.
I protagonisti di quest’opera cinematografica indipendente sono proprio le persone comuni, quelle che incrociamo ogni giorno per strada. Ogni intervista alle persone fermate per strada comincia con una semplice domanda: “Lei ospiterebbe a casa sua un extracomunitario? In un angolo, in cucina o in salotto; tanto non dà fastidio, si mette in un cantuccio e la guarda, si mantiene da solo”. Una domanda del tutto irrazionale che immette nel più completo non senso e crea un inaspettato umorismo, quello che solo la percezione del paradosso sa dare.
Antonio Rezza: “La domanda iniziale non è nient’altro che un gioco per suscitare una reazione nelle persone. La cattiveria crea ritmo, crea musicalità. I cattivi hanno sempre creato più musica. Nell’arte la rappresentazione della bontà non ha ritmo. La cattiveria si acquisisce con la distanza: chi è vicino è bravo, chi sta lontano è stronzo. L’obiettivo non era quello di alleviare le sofferenze di chi guarda, ma solo di mostrare che il razzismo in realtà è un falso problema. La parola razzismo conferisce una qualifica ideologica ad un fatto di pura stupidità. Il problema è che siamo indotti ad essere stupidi”.
La grande sorpresa di questo film sta proprio nel fatto che tutti, ma proprio tutti gli intervistati finiscono col restare imbrigliati in questo registro dell’assurdo. Per nessuno di loro è stato un problema manifestare il proprio pensiero rispetto all’accoglienza degli stranieri in casa propria di fronte ad una telecamera mentre uno straniero assiste di persona silenziosamente all’intervista.
Antonio Rezza: “Nessuno ha risposto in modo razionale, le persone non coglievano il paradosso, nelle loro risposte non c’era ironia. Io penso che il dolore annulli l’ironia. Se tu sbatti il mignoletto del piede allo stipite di un mobile nei dieci secondi successivi non te ne importa nulla dell’Olocausto e smetti di essere ironico. In effetti io il Nobel per la pace lo darei a chi sbatte il mignolo del piede e nei dieci secondi successivi riesce a pensare alla fame nel mondo”.
Flavia Mastrella: “Penso che le persone abbiano talmente voglia di raccontare di sé che le domande nemmeno le sentivano. Le domande sono strane ma le risposte sono regolamentari, autentiche. Sarebbe impossibile costruire personaggi del genere. La realtà è molto più fervida della fantasia”.
Antonio Rezza: “Le persone del film non sono ridicole, sono semplicemente reali. L’opera non starebbe in piedi senza le loro risposte. Direi anzi che c’è stata una coautorialità dell’opera inconsapevole da parte loro e non si può dire ad un cosceneggiatore che è ridicolo”.
Percorrendo in lungo e in largo una sola strada di Milano, via Padova appunto, avete raccolto frammenti di pensieri, paure e desideri, frasi fatte e discorsi a volte sconnessi che realizzano la sceneggiatura di un’insofferenza diffusa. Quale sarà adesso il cammino di questo film e quali sono i vostri futuri progetti?
Antonio Rezza: “Lo abbiamo presentato ogni anno sistematicamente a Venezia e ci è stato sempre rifiutato con una lettera in cui, ogni anno, Barbera, il direttore artistico del Festival, ci diceva sempre la stessa cosa: <<Nonostante non sia rimasto insensibile al vostro film…>>. Così abbiamo capito che ogni anno Barbera non rimane insensibile sempre alle stesse cose. Anche alla Festa del Cinema di Roma e al Festival di Torino ci hanno rifiutato perché non si capiva secondo loro da che parte stiamo noi perché la nostra posizione è ambigua. Questo film lo stiamo facendo uscire in autodistribuzione per dimostrare che si può distribuire un’opera da soli in modo libero. Intanto giriamo e montiamo molte nuove cose, ma poi come produttori ci impediamo di uscire perché siamo implacabili”.

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