di Mina Jane
Non è proprio un documentario e nemmeno un’inchiesta, il
film di Antonio Rezza e Flavia Mastrella è più che altro la messa in scena di
un paradosso, quello del razzismo. Milano, via Padova è la sceneggiatura semplice,
ma spiazzante e incredibilmente umoristica, di un disagio scritta con la
diretta collaborazione della gente comune, quella che si incontra per strada
ogni giorno.
Come è nata l’idea di
creare un’opera cinematografica che spiega il razzismo attraverso lo sguardo
degli abitanti di una via di Milano?
Antonio Rezza: “Milano Via Padova è un lungometraggio che
nasce per eccesso di zelo da un’indagine affidataci dalla Fondazione Gaetano
Bertini sulla gente che vive la via. Già l’anno prima la Fondazione Bertini ci
aveva incaricato di realizzare un documento sul disagio mentale. Questo film
parla invece di razzismo e insofferenza e racconta, attraverso il canto, la
convivenza forzata e la cultura di chi è straniero”.
Flavia Mastrella: “Ci hanno chiesto di fare questa
esplorazione per entrare in contatto con la popolazione con la gente della
strada e abbiamo accettato la sfida. Il nostro interesse era puramente
antropologico, mostriamo le cose, non diamo una soluzione, anche perché sono
problemi difficili”.
I protagonisti di
quest’opera cinematografica indipendente sono proprio le persone comuni, quelle
che incrociamo ogni giorno per strada. Ogni intervista alle persone fermate per strada comincia con una
semplice domanda: “Lei ospiterebbe a casa sua un extracomunitario? In un
angolo, in cucina o in salotto; tanto non dà fastidio, si mette in un cantuccio
e la guarda, si mantiene da solo”. Una domanda del tutto irrazionale che
immette nel più completo non senso e crea un inaspettato umorismo, quello che
solo la percezione del paradosso sa dare.
Antonio Rezza: “La domanda iniziale non è nient’altro che un
gioco per suscitare una reazione nelle persone. La cattiveria crea ritmo, crea
musicalità. I cattivi hanno sempre creato più musica. Nell’arte la rappresentazione
della bontà non ha ritmo. La cattiveria si acquisisce con la distanza: chi è
vicino è bravo, chi sta lontano è stronzo. L’obiettivo non era quello di
alleviare le sofferenze di chi guarda, ma solo di mostrare che il razzismo in
realtà è un falso problema. La parola razzismo conferisce una qualifica
ideologica ad un fatto di pura stupidità. Il problema è che siamo indotti ad
essere stupidi”.
La grande sorpresa di
questo film sta proprio nel fatto che tutti, ma proprio tutti gli intervistati
finiscono col restare imbrigliati in questo registro dell’assurdo. Per nessuno
di loro è stato un problema manifestare il proprio pensiero rispetto
all’accoglienza degli stranieri in casa propria di fronte ad una telecamera
mentre uno straniero assiste di persona silenziosamente all’intervista.
Antonio Rezza: “Nessuno ha risposto in modo razionale, le
persone non coglievano il paradosso, nelle loro risposte non c’era ironia. Io
penso che il dolore annulli l’ironia. Se tu sbatti il mignoletto del piede allo
stipite di un mobile nei dieci secondi successivi non te ne importa nulla
dell’Olocausto e smetti di essere ironico. In effetti io il Nobel per la pace
lo darei a chi sbatte il mignolo del piede e nei dieci secondi successivi
riesce a pensare alla fame nel mondo”.
Flavia Mastrella: “Penso che le persone abbiano talmente
voglia di raccontare di sé che le domande nemmeno le sentivano. Le domande sono
strane ma le risposte sono regolamentari, autentiche. Sarebbe impossibile
costruire personaggi del genere. La realtà è molto più fervida della fantasia”.
Antonio Rezza: “Le persone del film non sono ridicole, sono
semplicemente reali. L’opera non starebbe in piedi senza le loro risposte. Direi
anzi che c’è stata una coautorialità dell’opera inconsapevole da parte loro e
non si può dire ad un cosceneggiatore che è ridicolo”.
Percorrendo in lungo
e in largo una sola strada di Milano, via Padova appunto, avete raccolto
frammenti di pensieri, paure e desideri, frasi fatte e discorsi a volte
sconnessi che realizzano la sceneggiatura di
un’insofferenza diffusa. Quale sarà adesso il cammino di questo film e quali
sono i vostri futuri progetti?
Antonio Rezza: “Lo abbiamo presentato ogni anno
sistematicamente a Venezia e ci è stato sempre rifiutato con una lettera in
cui, ogni anno, Barbera, il direttore artistico del Festival, ci diceva sempre
la stessa cosa: <<Nonostante non sia rimasto insensibile al vostro
film…>>. Così abbiamo capito che ogni anno Barbera non rimane insensibile
sempre alle stesse cose. Anche alla Festa del Cinema di Roma e al Festival di
Torino ci hanno rifiutato perché non si capiva secondo loro da che parte stiamo
noi perché la nostra posizione è ambigua. Questo film lo stiamo facendo uscire
in autodistribuzione per dimostrare che si può distribuire un’opera da soli in
modo libero. Intanto giriamo e montiamo molte nuove cose, ma poi come
produttori ci impediamo di uscire perché siamo implacabili”.
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