IL MONDO DI LAV DIAZ
di Mina Jane e Alex M.Salgado
Per il grande pubblico è stata la
rivelazione dell’ultima Mostra
Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: Lav Diaz, il regista senza limiti di tempo. Dal 2006 a oggi le
opere di questo versatile realizzatore filippino hanno conquistato i favori
della critica e una serie di soddisfacenti successi nei più importanti festival
del cinema, ma il suo record assoluto sta soprattutto nella lunghezza dei suoi film,
che possono arrivare senza problemi anche fino a dodici di ore di proiezione.
Ieri sera all'APOLLO 11 di Roma, Cristina Piccino (critica del MANIFESTO) e Donatello Fumarola (distributore cinematografico) hanno presentato il film "FIGLI DELL'URAGANO - STORM CHILDREN: BOOK ONE" e per l'occasione, Lav Diaz, in collegamento video, ha parlato con grande libertà di sé come regista e della sua personale visione del
cinema.
“Il cinema è la sola cosa per la
quale vivo.
Senza il cinema non saprei fare nulla. È la più moderna delle arti,
tecnicamente la più potente e la più pericolosa. Comporta molte responsabilità,
prima fra tutte la responsabilità di usarlo principalmente come strumento
estetico.
Nel cinema si gioca la battaglia tra estetica e intrattenimento,
cultura contro commercio. Nell’usare questo mezzo sento tutta la responsabilità
soprattutto nei confronti del mio paese, verso la mia cultura, verso la mia
gente, la loro lotta come popolo e la mia personale lotta come artista”.
Quale obiettivo persegui nel fare
cinema? Quale risposta cerchi di offrire?
“In questo mestiere ci si
interroga di continuo, ogni giorno, perché il cinema riguarda l’esistenza
stessa, ne è una parte come un braccio o un occhio. Non sempre si trovano le
risposte”.
Il suo stile inconfondibile è
caratterizzato da lunghissimi piani-sequenza e campi lunghi come mai?
“Quando si realizza un film si
produce una specie di realtà culturale alternativa. La chiamo così perché si
tratta di una cultura che viene fuori dalle riprese stesse del film, fa parte
del nostro metodo cinematografico, è qualcosa di dinamico. Dopo aver fatto il
film, ognuno torna a casa propria, alla propria vita, e ci si lascia questa realtà
culturale alle spalle. Questa metodologia di lavoro mi consente di dare agli
attori più libertà. Una volta che dico “azione!” gli interpreti sono liberi di
fare quel che vogliono, entro i limiti di ciò che intendo ottenere in una
determinata scena. Voglio che gli attori facciano esperienza del loro personaggio
per trovare la loro espressività. Quando dico “stop” loro si arrestano. Così il
processo di alienazione di un personaggio è più realistico. Al contrario trovo
che operare molti tagli, fare molte inquadrature nella stessa scena, sia un
metodo molto manipolatorio. Credo che nel mio modo di lavorare ci sia più
verità. Spesso prendo le distanze da una scena perché voglio vedere la vita
così com’è, non voglio manipolarla, voglio vederla esattamente come la vedono le
persone. Voglio che il cinema possa essere come un’esperienza di vita, cerco la
verità della vita… se pure c’è una verità!”.
Cosa ti spinge a fare film così
lunghi?
“E’ una forma che ho sviluppato con il tempo.
I miei film sono diventati sempre più come organismi. Il limite delle due ore
per la lunghezza di un film è una pura convenzione commerciale. Io cerco di
realizzare un cinema libero e la lunghezza non è un fatto premeditato. Non so
mai quale potrà essere la lunghezza di un film quando inizio a girare. Se giro
una scena e viene di venti minuti, la lascio di venti minuti, non voglio
tagliarla o costringerla a una durata più breve”.
Quando monti un film ti capita di
chiederti per chi lo stai facendo?
“Io faccio cinema solo per il
cinema! Non per qualcun altro. Lo faccio per il cinema in quanto arte. Non
penso nemmeno al guadagno. Non voglio compiacere nessuno. Non desidero piacere nemmeno a me stesso.
Tutto quello che voglio è lottare per fare cinema, il cosiddetto “cinema puro”.
È qualcosa a cui non si arriva mai, ma ci provo. Una volta che il film è
realizzato non mi interessa nemmeno che tipo di reazione possa suscitare nel
pubblico. Fare cinema per me significa condividere e non posso tagliare un film
e renderlo di due ore solo perché piaccia”.
Come è nata la sua passione per
il cinema?
“Sono cresciuto guardando film.
Mio padre è un cine-dipendente, è stato lui la mia scuola di cinema. Anche se
era pieno di zanzare non gli importava, stava lì e guardava i film e mia madre
diventava pazza. Da Charlie Chaplin ai film d’azione e sul Kung-fu, sono
cresciuto guardando un sacco di film grazie a lui. Vivevamo in mezzo alla foresta nell’isola di
Mindanao, ma ogni fine settimana ci portava nel paese vicino a vedere tutto
quello che c’era in quattro cinema diversi, arrivavamo a vedere anche otto
film. Forse i miei film sono lunghi per questo! Mio padre è pazzo, questa è
stata la mia scuola e questo è il mio sangue”.
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Ringraziamo ZOMIA ( www.zomia.it) per la gentile concessione alla pubblicazione dell'intervista.
Il film rimarrà in programmazione a Roma all'APOLLO 11 di Roma fino a domenica 2 ottobre. Per il calendario delle programmazioni: pagina Facebook
Il film rimarrà in programmazione a Roma all'APOLLO 11 di Roma fino a domenica 2 ottobre. Per il calendario delle programmazioni: pagina Facebook
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